Nella pluralità dell’offerta, una guida, un criterio, una classificazione sono certamente di grande aiuto. Purché tali pareri siano utili a dipanare la matassa, e non un esercizio dialettico. In questo senso un critico del vino o del cibo serve tanto al mondo della produzione e del commercio, quanto al consumatore. Purché, a quest’ultimo, risolva dei problemi anziché crearglieli. Oggi assistiamo ad una superproduzione di giudizi, che impesta guide, libri, riviste di cucina, programmi televisivi, ma assai raramente questa mole di comunicazione si rivela utile ai fruitori; spesso disorienta e nella migliore delle ipotesi annoia, quando addirittura non irrita. “La spesa media dei clienti di Waitrose è di 5,8 sterline per bottiglia di vino, per quelli di Sainbury è di 4,46” spiega Andrew Jefford sul numero di agosto di Decanter, quindi, aggiungiamo noi, ragionevolmente meno pagano i frequentatori di Tesco e Asda, per restare in Inghilterra. In Italia la spesa è certamente ancora più ridotta. Io stesso, questa estate, non sono riuscito a trovare, in un Lidl di Riva Ligure, una bottiglia di vino che costasse più di 3,25 euro (tale fantasmagorica cifra apparteneva ad un rosso a denominazione, spagnolo, riserva, vendemmia 2004, tutto avvolto in una reticella dorata!). Tornando a quanto riportava Jefford, è chiaro che pur in quel range è ben difficile trovare vini che potremmo definire ‘fini’ o comunque di qualità superiore. Ma sono quelli i vini che fanno mercato, e che la gente compra. A cosa serve quindi tutto quel popò di comunicazione, di resoconti, di degustazioni prestigiose, di verticali ‘mitologiche’ che affollano riviste, giornali, siti internet… se poi il destinatario di cotanta informazione accede a bottiglie ben più abbordabili di quelle di cui gli narriamo? Quanta quota di autocelebrazione – da parte dei critici, ovviamente – c’è nel raccontare di prodotti che viaggiano in canali che quasi mai si intersecano con il ‘comune bevitore’ seppur appassionato? Tanto per essere chiari, si tratta di vini che neppure il critico in questione è disposto a comprare (se gliene scovate una bottiglia in casa, potete giurare che gliela hanno regalata!). Ma non solo l’oggetto della degustazione è fuori focus, anche il metodo. Al consumatore servono indicazioni sui vini che berrà a pranzo o a cena; il critico invece ammannisce responsi su degustazioni ‘asettiche’ e con descrizioni spesso comparative nei confronti di altri vini della stessa batteria, non certo di eventuali piatti a cui accostarli. E poi, perché parlar di tutto tranne che delle cose utili? Chi mai ragiona anche della bontà in confronto del prezzo? Come mai si glissa su quello che è il principale fattore esaminato da chi si predispone all’acquisto? È veramente ora di riscrivere le modalità con cui si parla di vino e dei vini, specie da noi; la stampa anglosassone in parte ha già cambiato rotta e i reportage sui vini da supermercato, con violente stroncature di quelli scadenti, proliferano. La credibilità dei critici è poi un’altra questione, non certo però secondaria. Ma sarà possibile leggere solo e soltanto giudizi positivi? Perché non vediamo servizi ‘seri’ che confrontano aziende, vini e costi ove si stilano classifiche che riportano anche chi arriva ultimo? Perché non ci dicono che un determinato vino (tenendo conto del suo prezzo) è assolutamente sovrastimato in confronto ad altri competitor? Inoltre, oramai assuefatti ai soliti giudizi positivi sui soliti vini delle solite aziende, dobbiamo beccarci anche paginate di elogi personali al produttore-personaggio, alla di lui moglie e, ovviamente al solito enologo di grido (che conosce quel determinato terroir come io conosco l’ingegneria spaziale). Non è questo uno scrivere melenso, servile ed assolutamente demodé? E soprattutto, c’è ancora bisogno di creare idoli sulle cose da mangiare e da bere?