Non c’è pace per il marketing enologico: nessuna politica o strategia evidenzia capacità di durare per tempi ragionevoli, tutto è sempre in continua discussione e trasformazione. Oramai è certo che sarà sempre più raccomandabile ‘bere locale’, anche se è chiaro che l’eccezione verrà assolutamente tollerata per quelle aree che non hanno una produzione propria. È anche evidente che i grandi vini continueranno ad essere compravenduti in tutto il globo, ma per quelli di fascia bassa potrebbe accadere che fra i requisiti imposti dalla grande distribuzione vi sia un numero massimo di chilometri di distanza dal luogo di produzione, affermazione che alla luce di quanto sta accadendo in Inghilterra non suona più come fantascientifica. L’interesse crescente verso la provenienza delle materie prime ha investito prima il commercio e poi la ristorazione. Gli chef anglosassoni più blasonati (leggi stellati) oramai dedicano più tempo (e spazio, nei menu) alla descrizione della provenienza degli ingredienti impiegati che alle caratteristiche dei loro piatti. Ma c’è una differenza fra lo stile italiano e quello d’Oltremanica. Da noi la provenienza è di per sè garanzia (perchè legata a luoghi di grande tradizione qualitativa dei prodotti), in Inghilterra invece è un primo indizio, che poi viene esplicitato nelle sue componenti. Più per motivi etici e di sostenibilità che per riferimenti diretti ai caratteri organolettici del prodotto. Anzitutto il luogo di origine evidenzia il tragitto che il prodotto ha dovuto compiere per giungere sulla tavola. Arrivare da lontano non è più ‘in’, anzi. A causa dell’impatto dei trasporti sull’ecosistema c’è la netta prevalenza del locale (“miles food”), quando non l’evidente condanna dei prodotti importati. In questo senso si cerca anche la sostituzione, quando possible, degli originali con dei surrogati. Un esempio? La pubblicità di un prosciutto crudo ottenuto copiando quello di Parma esalta il fatto che viaggia 900 miglia in meno per arrivare sulle tavole inglesi! Successivamente la provenienza viene esplicitata in termini di sostenibilità dei metodi di produzione, per cui fior di esperti (docenti universitari, giornalisti, …) spiegano perchè è etico magiare gamberetti canadesi (regole di pesca ecofriendly) mentre non lo è altrettanto per quelli di provenienza asiatica, nemmeno se allevati (distruggono le foreste di mangrovia). Tornando al vino, l’attenzione al contenitore (vetro leggero, chiusure ecologiche, carta ed inchiostro utilizzati per l’etichetta…) ed alle pratiche di trasporto e stoccaggio è quindi cruciale. Perlomeno quanto la modalità di coltivazione delle uve (c’è un vero trionfo del biologico in tutto l’agroalimentare) e l’aderenza a precise regole produttive (disciplinari). Ad esempio mi attendo anche una forte valorizzazione del non utilizzo dell’irrigazione in vigna (l’acqua può avere più razionali impieghi), che potrebbe fare la differenza fra un vino italiano ed uno australiano. I caratteri organolettici degli alimenti (vino compreso) sono quindi oramai clamorosamente in secondo piano: basti pensare che il riferimento più importante per le uova inglesi è legato alle condizioni di vita delle galline (assolutamente bandite quelle derivanti da allevamenti in batteria). Imperdonabile, alla luce di queste tendenze, l’errore di aver reso sempre più simili le politiche produttive del Vecchio Mondo a quelle del Nuovo. Il divieto all’impiego di certe tecniche, prodotti e sostanze (ultimo esempio i trucioli, ma anche coadiuvanti) sarebbe stato un ottimo argomento da evidenziare nelle campagne comunicazionali a favore del vino europeo. Vi sono ovviamente eccezioni a tutto quanto esposto. Bere vino proveniente da una cooperativa argentina, ad esempio, ancorchè imponga un tragitto lungo ed inquinante alle bottiglie, viene indicato come etico perchè con i proventi si finanzia un impianto di estrazione dell’acqua utilissimo alla povera popolazione locale. C’ è spazio per tutti quindi. Chi vincerà? Di sicuro chi argomenterà meglio!
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