Seconda giovinezza per le cantine sociali, quelle accorte …
Di Matteo Marenghi
L’attuale situazione economica e finanziaria esaspera le inadeguatezze di tutti i settori, e quindi anche del vino. Si accelerano gli effetti della globalizzazione e divengono ancora più urgenti i cambiamenti. La cooperazione però ha un’arma in più rispetto alle aziende private; può ingrandirsi senza esborsi monetari.
Mondo del vino in affanno a causa di una crisi mondiale che si è abbattuta su un comparto che, comunque, stava già scontando diversi problemi, e non solo in Italia. È inoltre evidente che oltre a penalizzare il commercio, la congiuntura si scarica soprattutto sul viticoltore, che, già da alcune annate, realizza prezzi di vendita delle uve inferiori ai costi di produzione. Appare altrettanto chiaro che, a rigor di logica, non sono ipotizzabili possibilità di miglioramento delle condizioni di chi, non trasformando e non aderendo a cantine sociali, sarà sempre più indifeso nei confronti degli industriali. Saranno quindi molteplici gli effetti dell’attuale congiuntura sul sistema produttivo nazionale, ma è certo che ne accelererà lo svecchiamento, con particolare riguardo alla dimensione aziendale ed organizzativa che deve necessariamente ingrandirsi. I piccoli sopravvivranno solo se potranno vantare reali e riconosciute capacità e peculiarità: ci saranno comunque meno ettari vitati e meno aziende.
Probabilmente verificheremo anche un aumento del peso della cooperazione che, infatti, sta reagendo più di quanto facciano le aziende private, accelerando un processo di fusione già intrapreso da tempo. Ultimo esempio di rilievo quello delle Cantine Riunite (Reggio Emilia) e di Civ (Modena) che si sono prima fusi (dando vita a “Riunite & Civ”, 110 milioni di bottiglie per un fatturato di 150 milioni di euro l’anno) e poi hanno acquistato totalmente il pacchetto azionario del Gruppo Italiano Vini (prima realtà vitivinicola nazionale che fattura 300 milioni di euro). Appurato che aumentare le dimensioni è un obbligo e non un’opzione, appare evidente che il vantaggio enorme della cooperazione è quello di potersi ingrandire facendo accordi, ma senza dover necessariamente comprare.
Le cooperative vitivinicole in Italia sono diverse centinaia e detengono oltre il 50% del prodotto nazionale. Si sono sviluppate per garantire la concentrazione dell’offerta sul mercato e regolarne pertanto il prezzo, a vantaggio dei soci produttori. Con la globalizzazione, le cantine sociali sono state interessate da processi di integrazione verticale per la formazione di strutture in grado di garantire qualità e quantità dei prodotti, ma soprattutto di assicurarne promozione, commercializzazione e vendita. Oggi, parallelamente, si è acuita la necessità di una integrazione anche orizzontale, affinché strutture simili ed interessate a stesse produzioni e/o mercati trovino sinergie ed economie di scala, anziché sperperare risorse nell’azione di contrasto e di concorrenza.
Non per questo il comparto della cooperazione vitivinicola è scevro da problemi: classico tallone d’Achille è spesso l’aspetto manageriale. Solo nelle realtà ben organizzate è infatti nettamente distinto il momento di rappresentanza (che spetta unicamente ai soci e quindi al consiglio di amministrazione ed al suo presidente) da quello decisionale ed operativo, che deve essere esclusivo appannaggio del manager (il direttore ed il suo staff di specialisti). Quando ciò non avviene esistono difficoltà di delega delle scelte manageriali e sono garantiti sia problemi nella gestione sia basse prestazioni economiche. Ciò spiega l’altro storico limite di tante cantine sociali: la scarsa attitudine alla conquista dei mercati extranazionali e l’incapacità di costruire marchi forti, preferendo vivere all’ombra di un marchio collettivo (la Doc) anche in territori dove la denominazione non è un reale valore aggiunto (quasi ovunque). Nel futuro prossimo, complici i nuovi orizzonti normativi comunitari, saranno ancora meno importanti le denominazioni e più peso assumeranno i brand aziendali, che si possono costruire solo se si dispone di masse sensibili di prodotto, e di adeguate professionalità. E chi può assommare grandi quantitativi di vino se non le cantine sociali?
Pubblicata il 12/02/2009