Cosa cerca il consumatore nel vino? Di tutto. Dal minimo prezzo alla cifra iperbolica (anche quest’ultima è una precisa richiesta, che va soddisfatta), dal territorio al ‘villaggio globale’, dalla finezza alla potenza gustativa. La lista è enorme e quindi non è nelle pieghe delle volubili attese dei potenziali clienti che le aziende possono leggere decisi orientamenti strategici, o perlomeno, non ve ne sono di generalizzabili. Eccetto una opzione, la verità. Nel vino come negli alimentari, ma oramai ovunque, oggi si chiede la totale corrispondenza fra quanto un bene dichiara di essere e ciò che in effetti è. Il valore più prezioso nella relazione fra chi produce e chi acquista è infatti la trasparenza, che genera fiducia. L’inganno, qualora intervenga, è capace di rivelarsi un evento assolutamente catastrofico, in grado di annientare anni o decenni di ottima reputazione. È a questo punto scontato, e tuttavia lo citiamo, l’esempio del Brunello, che, per motivazioni che in questa sede non affrontiamo ma che comunque al consumatore non interessano, ha infranto questo legame e pagherà, certamente, serissime conseguenze. L’esigenza di verità e di aderenza alle dichiarazioni è probabilmente massima nei vini che si definiscono ecosostenibili, con i vari gradi di rigidità produttiva, dal biologico al biodinamico. Qui la rispondenza fra quanto dichiarato e la realtà ha un valore inestimabile; è la vera essenza del prodotto e l’unico reale requisito che attira gli estimatori. La ‘bontà’, in questa scala di valori viene, a mio avviso giustamente, assolutamente molto dopo. È chiaro che tradire il consumatore in questi due casi citati è fatto del tutto consapevole, perché si dà luogo ad una vera e propria frode, una palese violazione della legge, quindi è abbastanza facile adottare, qualora lo si voglia, comportamenti virtuosi. Ma vi sono invece, da cominciare a considerare – e qui sta la novità – altre situazioni, perfettamente legali, che oggi possono comunque ingannare la buona fede del consumatore. Qualche esempio? Pensate al nome varietale che compare nella maggior parte delle denominazioni. Il consumatore ritiene, leggendo il nome dei vitigno, che questo sia l’unico costituente di un vino, non sa che generalmente è ammesso un 15% di altre varietà nella stessa bottiglia. Non è anche questo un inganno per il consumatore? Non possiamo infatti negare che un 15% (chi controlla poi che non sia anche il 20 o il 25%?) di Syrah in un vino rosso neutro sia già capace di marcare, se non stravolgere, il profilo del vitigno ‘principale’. Non importa se l’aggiunta di vitigni complementari è fatta secondo legge ed a fin di bene, ovvero per migliorarne gli attributi sensoriali: è, nella sostanza, un raggiro. Pensate poi agli arricchimenti, del tutto ammessi, che, da noi con mosti concentrati ed in altri paesi con zucchero, comunque ledono l’integrità del vino e lo pongono, concettualmente, sullo stesso piano di bevande ‘costruite’. Ma lo stesso avviene con il truciolo impiegato per scimmiottare la botte, anche qui legalmente. Che fare quindi? Dobbiamo tutti trasformarci da imprenditori a martiri? No certamente, ma potrebbe essere commercialmente vantaggioso, accanto a vini corretti che rispettano tutte le norme, anche fare un passo avanti tutelando altre aspettative del consumatore, spesso etiche ma anche tecnologiche. Garanzie personali aggiuntive, e reali, su requisiti oggi ‘sensibili’, ovviamente da apporre solo su alcuni vini. Tipo monovitigni al 100%, vini senza solforosa aggiunta, vini non arricchiti, vini non chiarificati e/o filtrati, vini non enzimati e non inoculati con lieviti e batteri selezionati … Tutte cose da comunicare, ovviamente, ma che darebbero certamente ritorni molto efficaci, … a patto che si goda di fiducia!
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